LE PAROLE AL TEMPO
DEL CORONAVIRUS
di William Silvestri
Quando ripenso ai miei nonni ho un ricordo che emerge sopra a tutti gli altri: non buttavano mai niente. Rammento, ad esempio, il giorno in cui io - sciagurato - gettai un elastico e nonna lo recuperò dalla pattumiera di casa sua, lo lavò sotto al rubinetto e poi lo sistemò con la massima cura, come si fosse trattato di un monile d'oro, in un barattolo di vetro che in origine conteneva fagioli ed era stato adibito a conservare centinaia di elastici di ogni misura, colore e spessore. Nonna conservava elastici perché non si sa mai.
A ben pensare, tutti i nonni che conoscevo erano come i miei: quelli dei compagni di classe, e poi i nonni di quartiere, silenti sorveglianti di tutti i bambini che giocavano per strada, a prescindere da quale famiglia appartenessero; e naturalmente la nonna della ragazza che è poi diventata mia moglie, la quale oggi viaggia verso i novant'anni. Queste nonne e questi nonni avevano tutti una credenza, un armadietto o una cantina zeppa fino all'inverosimile di scatolette di legumi o di tonno, di sacchetti di farina, di barattoli di caffè. E noi ragazzi cresciuti negli anni '70 e '80 li guardavamo quasi con compassione, noi che avevamo tutto ed eravamo forse un po' viziatelli, anche se avevamo meno dei ragazzi di oggi.
Perché facevano così? Nonno, perché hai dieci confezioni di dopobarba mai aperte nascoste nel baule?
Perché avevano visto la guerra.
La guerra. Io l'ho vista solo nei film, dove vincono sempre gli americani e i tedeschi (o i pellirossa) sono i cattivi. Oppure l'avevo studiata nei libri di storia. Crescendo, però, iniziai a farmela raccontare dai miei nonni, la guerra. Volevo capire cosa avesse spinto mio nonno materno ad arruolarsi volontario a diciassette anni, per esempio, o scoprire il motivo per cui i miei nonni paterni - che avevano costruito un piccolo impero costruendo ferrovie in Africa orientale - erano finiti a patire in un campo per profughi di guerra dicendo addio a tutte le loro ricchezze coloniali.
Quando, da bambino, facevo i capricci a tavola, nonno mi rimproverava dicendo che lui nel deserto aveva mangiato le bucce dei fichi d'India, mentre scappava dai tedeschi. Ed era vero, perché un giorno mentre eravamo in un mercato rionale a Roma, incontrò un ex prigioniero che aveva i suoi stessi ricordi. Nonno scappò da non so quanti campi di prigionia, come il protagonista di Papillon, e se queste storie non le avesse raccontati ai figli e poi a noi nipoti, di tutte le sue imprese - incluso quando salvò la vita a un tunisino che gli fu debitore fino all'ultimo dei suoi giorni - non sarebbe rimasta traccia.
È stato allora, che ho conosciuto il valore della Memoria. La storia non è soltanto quella che leggiamo nei testi scolastici, che possono essere più o meno condizionati a seconda della corrente che "spinge" chi li scrive. Ad esempio, noi da bambini studiavamo forse poco, ma tutti - nessuno escluso - sapevamo che Hitler era cattivo. Se la Germania avesse vinto, quale storia avremmo appreso fra i banchi? E in ogni caso, a un bambino nato a Monaco di Baviera o a Lipsia, come viene raccontata l'epopea del Terzo Reich?
In verità, la storia è fatta da tante storie e ciascuno di noi è detentore della propria. E quando tanti di noi, per motivi non preventivati, si trovano a condividere il medesimo evento, ogni storia diventa Storia, le storie di tutti si sommano e raccontano molteplici sfumature di quello stesso evento storico, a seconda di com'è stato percepito da ognuno, a seconda della sensibilità di ogni singola persona che quell'accadimento lo ha vissuto sulla propria pelle, a seconda dell'esito che è sempre diverso per tutti.
Quello che forse ci sfugge, oggi, è che noi tutti siamo testimoni e questa testimonianza fa la storia.
Non posso paragonare il Covid-19 alla guerra, tuttavia è lecito asserire che per noi adulti di oggi - i quaranta-cinquantenni, ma anche i nostri genitori - il coronavirus rappresenti l'Evento, quello con la "E" maiuscola, l'avvenimento storico irripetibile e dalla portata eccezionale che ricorderemo per sempre. Forse un giorno ne parleremo ai nostri nipotini, forse un giorno anch'io conserverò farina (e lievito!) come fossero lingotti d'oro, e il motivo è semplice: perché durante questi tre-quattro mesi di pandemia, lievito e farina erano impossibili da trovare. Non potrò mai dimenticarlo. Come l'Amuchina, o le mascherine, vendute online a peso d'oro da faccendieri che non avevano nulla da invidiare agli antichi mercanti della borsa nera raccontata magistralmente da Eduardo in Napoli milionaria.
È stato il Covid, la nostra guerra. E proprio perché riconosco il valore della Memoria, e la sua importanza, sentivo fosse necessario far qualcosa per non sperperare il bagaglio di emozioni, ricordi e anche umanità che abbiamo accumulato in questi mesi di isolamento forzato. Anzitutto per spiegare ai più giovani, che come noi sono fortunati occidentali nati e cresciuti in un contesto di libertà assoluta, sotto ogni aspetto dell'esistenza, che la libertà stessa è il più prezioso dei beni e va difeso sempre, anzi, preteso. L'abbiamo capito quando da un giorno all'altro ci è stato detto che non potevamo uscire di casa, se non per fare la spesa. Non appartengo a quelli che si sono lamentati perché hanno dovuto rinunciare all'aperitivo o a una sana pedalata in compagnia degli amici, ma è evidente che quattro mesi di "dorata prigionia" fra le mura domestiche abbiano lasciato qualche strascico anche nel più intrepido fra gli ottimisti.
L'idea di scrivere affinché restasse memoria di questo periodo mi ha stuzzicato fin dai primi giorni di lockdown, come credo sia stato per la stragrande maggioranza degli scrittori del nostro tempo. Mi frenava tuttavia un senso di incompletezza che non riuscivo a spiegarmi, una vocina interiore che mi suggeriva la bontà dell'idea ma, al tempo stesso, la non perfetta aderenza al ruolo che pensavo di ritagliarmi. Non capivo perché, insomma, ma sentivo di non dover essere io.
Poi un giorno mi ha telefonato Benedetto Tudino. Non devo certo presentarvelo io: la carriera, lo spessore della sua opera parlano per lui. Per me, però, Benedetto è soprattutto uno dei più grandi scrittori contemporanei che per qualche capriccio del destino ha deciso di affidare la sua ultima creatura letteraria alla casa editrice che dirigo: Argento Vivo Edizioni. Benedetto per me è un punto di riferimento, un mentore, un maestro e - anche se ci conosciamo da poco - un amico. Già seguivo i suoi pensierini su Facebook, e in segreto ne facevo tesoro, ma con quella telefonata di qualche settimana fa Benedetto mi ha raccontato di quella sua (mia) intuizione di regalare le proprie riflessioni sul periodo storico che stiamo ancora vivendo, ma da una prospettiva soggettiva e con la consueta classe che caratterizza la sua cifra artistica. E ricordo che mentre Benedetto, con entusiasmo, mi raccontava la sua idea, in me il cerchio si stava chiudendo e tutte le domande avevano trovato risposta: non dovevo essere io, ma lui.
Benedetto, che ha cresciuto e cresce tuttora generazioni di lettori incantati dalla sua arte, era la risposta e l'unico che potesse farsi testimone della storia e per la storia. Con quel suo linguaggio sempre capace di accarezzarti l'anima, che di primo acchito sembra rivolto ai più piccini e tuttavia cela una profondità di pensiero e una lucidità nelle riflessioni in grado di far germogliare il più brullo dei cuori, perché lui parla ai fanciulli, ma a quelli che dormono nel corpo degli adulti e non aspettano altro che essere risvegliati.
Ma perché un libro sul Covid, ora che l'emergenza pare avviarsi verso la conclusione?
La mia risposta a questo interrogativo necessita l'ennesimo richiamo ai nonni. Io, come tutti quelli della mia generazione e di quella dei miei genitori, ho avuto la fortuna di avere nonni che ricordassero la guerra, che potessero raccontarmela. Ed è stato grazie a loro, ai nonni di tutti noi, che si è potuto concretizzare il passaggio del testimone. Ma questo virus così subdolo ha purtroppo cancellato un'enorme fetta di Memoria, portandosi via i nostri anziani. Tanti, troppi nonni oggi non ci sono più per colpa del Covid, e con loro le loro storie, la loro storia. I popoli antichi tenevano in grande considerazione gli anziani, e spesso a loro demandavano le decisioni più importanti. I nonni erano la storia e la saggezza di una nazione.
È troppo, troppo importante preservare le nostre radici, la nostra storia, ma per raccontarla - e per raccontare questo assurdo periodo contrassegnato dal coronavirus - è necessario che una voce autorevole si innalzi sopra le altre. Stiamo parlando di testimonianza, e non posso essere io l'araldo - né un qualsiasi autore della mia generazione - perché le nostre anime sono ancora troppo acerbe e i nostri processi di maturazione spirituali incompleti.
Non potevo essere io, ma lui.
E poi c'è un'altra ragione. Nel mio innato (e incauto, a volte) positivismo, ammetto di essere stato uno di quegli ottimisti della prima ora, quando ancora si cantava l'Inno di Mameli dai balconi e dicevamo che il virus ci avrebbe reso persone migliori. Non solo il Covid non ci ha migliorato, ma temo - ahimè - che l'isolamento sia riuscito nella difficile impresa di peggiorarci. La reclusione forzata, l'incertezza per l'economia del Paese, la confusione portata in scena dalle stesse Istituzioni e dalla comunità scientifica hanno giocato un ruolo decisivo nel nostro processo involutivo. Ci siamo abbrutiti. C'è più egoismo, più cinismo, più cattiveria, più gelosia rispetto a prima che scoppiasse la pandemia: e davvero, mai avrei pensato che si potesse far peggio di come eravamo allora.
Ma una speranza c'è sempre. Se è vero che il genere umano è stato capace di diventare ancora più brutto, confido nel potere salvifico dell'arte. Per dirla con Dostoevskij, la bellezza salverà il mondo.
C'è tanto bisogno di cose belle, specie in questo momento. E allora tutto quello che posso fare - io che non sono un medico in grado di salvare vite, o un infermiere, o il cassiere di un supermercato che è rimasto aperto quando morivano mille persone al giorno in Italia - è attingere alla mia sensibilità di essere umano e riconoscere il Bello. E poi, siccome sono editore, metterlo a disposizione di tutti.
Le pagine che leggerete sono Bellezza pura. Ce le regala Benedetto, insieme ai suoi pensieri più intimi, alle sue riflessioni figlie di un evento di cui parleranno i libri di storia - quella storia che stiamo vivendo senza esserne pienamente consapevoli. Benedetto che qualche giorno fa mi ha richiamato, perché aveva un dubbio: temeva che queste pagine fossero troppo sue, troppo personali e non potessero essere utili alla causa. D'altronde, l'umiltà è la più importante dote dei grandi uomini.
Forse Benedetto non è del tutto conscio del suo ruolo, e di ciò che rappresenta nel panorama letterario contemporaneo. A me piace considerarlo come un moderno Griot, e davvero se chiudo gli occhi vedo già decine, centinaia, migliaia di lettori attorno a questo focolare a forma di libro, desiderosi di assorbire parte della sua sapienza, di ascoltare i suoi racconti, di imparare. Di crescere. Benedetto ci sta donando la sua saggezza e, al tempo stesso, i suoi giorni, la sua vita durante l'emergenza. Facciamone buon uso, di questo dono. È il famoso testimone di cui parlavo prima, e a noi resta il compito di accoglierlo e raccoglierlo, per poter in futuro tramandare la Memoria di questo periodo ai nostri cari. Di questo compito ne sono stato subito consapevole, in tutte le mie dicotomie: come padre e come figlio, come scrittore e come editore, come educatore e come apprendista della parola. Ma soprattutto come essere umano. Perciò, Benedetto, ti ringrazio per esserti donato a tutti noi, e per aver affidato ancora una volta la tua arte ad Argento Vivo.
A proposito di bellezza, desidero infine ringraziare Fabio Magnasciutti per aver impreziosito l'opera con le sue magnifiche illustrazioni, così come ringrazio Giovanna Koch che è stata fondamentale nella genesi dell'idea alla base di questo libro.
E ora, immergiamoci nelle parole di Benedetto.