IL CADAVERE

di Francesco Picca

L'impianto siderurgico di Taranto ha una storia vecchia di sessant'anni, iniziata con gli investimenti IRI, passata per le mani private della famiglia Riva prima e degli indiani Mittal poi, approdata infine alle cronache di questi giorni per un incestuoso intervento riparatore del governo. L'ennesima azione scomposta dello Stato cerca di rimediare ad un pasticcio colossale iniziato nel 2012 quando, l'arresto dei Riva, di tutta la massima dirigenza ILVA e la messa sotto accusa di una cricca trasversale di politici, faccendieri, preti e persino di un perito della procura, scatenò le preoccupazioni per le sorti di un rottame necessario a nessuno e utile a molti. Da allora si sono contati una dozzina di decreti governativi atti a tenere in vita il cadavere, raccontando di volta in volta quanto la sua sopravvivenza fosse strategica per l'economia nazionale e, addirittura, per il mercato mondiale dell'acciaio. Un mercato asfittico, bloccato, intasato dall'acciaio cinese, in cui i Riva erano riusciti a mantenersi a galla per vent'anni omettendo di realizzare gli investimenti sulle migliorie tecnologiche e sulla sicurezza. A sostegno di queste azioni di sistematico boicottaggio della Costituzione è giunta, nella primavera 2015, la chicca a firma cinquestelle denominata "Reato di inquinamento abusivo": un abominio bocciato in tronco dal gotha dei giuristi ambientali con in testa il compianto Gianfranco Amendola, ma difeso strenuamente nel suo impianto fallace dalla banda di scassinatori grillini e licenziato a cuor leggero dal parlamento a trazione piddina. Ricordo con amarezza quanto avvenuto soltanto alcuni giorni dopo, nell'aula del processo ILVA denominato "Ambiente Svenduto", ovvero l'assalto allo scranno del giudice da parte degli avvocati difensori per appellarsi alla novità normativa e per chiedere la revisione al ribasso di tutti i capi d'accusa. Fu una coltellata, l'ennesima, inferta alla schiena di una comunità agonizzante ormai da mezzo secolo, di una città abituata a raccontare, a vivere e a condividere la malattia, il dolore e la morte come fossero una consuetudine. Il penultimo capitolo della tragedia magno-greca è stato l'intervento dei franco-indiani della Arcelor-Mittal, circa due anni fa, con un contratto di affitto dello stabilimento subordinato alla sussistenza di una clausola che non trova applicazione nemmeno negli angoli più bui dell'industrialismo terzomondista: il salvacondotto penale per il nuovo management. Inutile raccontare di come gli affittuari fossero unicamente interessati a rilevare le residue commesse ILVA e, soprattutto, ciò di cui nessuno parla, ad impossessarsi delle quote di CO2 spettanti al sito industriale. Allo stesso modo quasi nessuno parla del vero motivo di questo accanimento terapeutico sulla fabbrica moribonda, che non è la tutela occupazionale e non è nemmeno la tanto strombazzata valenza strategica; per avvicinarsi ad una verità quantomeno credibile bisognerebbe piuttosto parlare dei miliardi di crediti vantati dalle banche, di come questi crediti sostengano i conti economici dei loro bilanci e della pericolosa catena di contraccolpi finanziari su base nazionale che determinerebbe l'eventuale fallimento della ferriera; in nome della verità si dovrebbe anche parlare delle sette discariche asservite al sito industriale che, a seguito di una sua chiusura, non avrebbero più ragion d'essere e, soprattutto, di servire tizio e caio. L'accordo firmato in queste ora tra lo Stato e la Arcelor-Mittal, pubblicizzato come un autorevole e coraggioso intervento della mano pubblica, è l'ennesima capriola distrattiva, monca nei contenuti!""" "

e fallace nelle clausole, destinata a fallire miseramente causando ulteriori perdite e altri danni ambientali. È un altro colpo di cipria al pallore del cadavere, un modo come un altro per differire il certificato di morte del vecchio rottame e sottoporlo alla vidimazione di un governo che non sia quello in carica. Sopra ogni cosa, confermando e reiterando la porcheria del salvacondotto penale, questo accordo è l'ennesima grave offesa alla Carta del 1948. Mi ha sorpreso, in queste ultime ore, l'entusiasmo fanciullesco di numerosi opinionisti del popolo bene, gente che veste la giacca sul maglione e ha la testolina teneramente abbandonata sulla spalla del capo famiglia finto-progressista di turno. Mi ha lasciato perplesso, in particolar modo, la pigrizia analitica di fondo e l'approssimazione del giudizio. Vorrei tanto invitare queste penne gioiose a sedere alla mia umile tavola, qui, in riva ai Due Mari, per far quattro chiacchiere masticando pane e veleno.