INTERVISTE FANTASMA
JULIAN BECK
di
Giorgio Moio

- Incominciamo con una domanda per sciogliere il ghiaccio. Chi è Julian
Beck?
Sono nato a New York il 31 maggio 1925 dove sono morto il 14
settembre 1985. Sono stato un attore e regista teatrale, poeta, pittore
e saggista. Sono cresciuto in una famiglia ebraica. Dopo aver frequentato
la Yale University, mi dedico alla pittura astratta e divento
amico di Jackson Pollock. Poi, quando conosco mia moglie Judith
Malina, ad entrambi ci prende la passione per il teatro, fondando il
Living Theatre che ho co-diretto con mia moglie fino alla sua morte.
Ho anche partecipato a progetti cinematografici: "Edipo re"; "Cotton
Club"; "Poltergeist II - L'altra dimensione"; "Amore e rabbia"; un
episodio del film che Bernardo Bertolucci diresse nel 1967.
- Avete avuto problemi particolari all'inizio della vostra attività di
teatranti?
Direi siamo stati abbastanza fortunati, forse per la scelta di proporre
Antonin Artaud, il teorico del "Teatro della crudeltà". Questa
scelta, ma vorrei sottolineare anche un pizzico di bravura, fa sì che
la nostra compagnia teatrale sperimentale si insedia stabilmente nel
panorama di Broadway, il tempio del teatro newyorkese. Ma essendo
indisciplinati, anarchici e controcorrente, la compagnia riesce
anche a proporre e realizzare lavori fuori dai canoni tradizionali,
basati su temi forti per l'epoca e l'ambiente, come "The connection"
di Jack Gelber; "The brig" e "Many loves" che affrontava il problema
dell'omosessualità. Il mio è un teatro politico, della gioia, di liberazione,
rivoluzionario, underground.
- Poi decidete di fare un tour europeo, come fanno le grandi star. Cosa
ricorda della sua tournée in Italia?
Ricordo che fu la prima del tour europeo. Eravamo nel 1961.
Presentammo "The Connection" a Roma, Torino, Milano e alla Biennale
Teatro di Venezia. Fummo accolti bene, ma la strada dell'avanguardia
teatrale, come molti sanno, in Italia era già stata tracciata
da quel fenomeno che è Carmelo Bene e le sue contestazioni stereotipate,
come al "teatro di regia".
- Scusi l'ignoranza: facciamo capire bene ai nostri lettori cosa s'intenda
per "teatro di regia".
Semplice. La risposta ce l'ha dà la stessa denominazione. Ovvero,
un'ascesa negli ultimi decenni dell'Ottocento di un processo che porta
all'affermazione di un nuovo sistema di spettacolo imperniato sulla
centralità della figura del regista, proclamandosi il solo custode
dell'intangibilità del testo che trovò il consenso del mondo intellettuale.
In Italia è uscito un bel libro, molto esplicativo sull'argomento,
Il teatro di regia: genesi ed evoluzione, 1870-1950, di Umberto Artioli,
pubblicato da Carocci nel 2004.
- Ci sono tracce per chi oggi vorrebbe studiare il suo pensiero di rinnovo
dell'ambiente teatrale?
Due saggi: La vita. L'artista e la lotta del popolo e Theandric, il testamento
artistico del fondatore del Living Theatre.
- Quando è importante la narrativa nel teatro?
È importante perché se il teatro deve essere il mondo non può
trascurare quanto avviene, la transizione da un momento all'altro.
Particolari esperienze come spugne di inchiostro blu lanciate contro
un vetro verde possono incantare l'occhio, ma la persona che lancia
la spugna è sempre più interessante dell'inchiostro che schizza. II
problema è fare un teatro in cui questo sia chiaro. La tua mano che
porta alle labbra la familiare tazza di caffè è qualcosa di più che una
bistecca vermiglia nel cielo della sera: qualunque cosa tu faccia supera
ogni paesaggio, bisogna chiarirlo. Se vogliamo sopravvivere al
paesaggio.
- E la poesia?
Ho sempre creduto in un teatro come luogo di esperienza intensa
fra sogno e rituale, durante il quale lo spettatore perviene ad una
comprensione intima di se stesso, al di là del conscio e dell'inconscio,
sino alla comprensione della natura delle cose. Mi è parso che
solo il linguaggio della poesia arrivi a questo: solo la poesia o un
linguaggio carico di simboli e molto distante dal nostro linguaggio
quotidiano può condurci al di là del presente che non ha la chiave
della conoscenza di questi regni.
- A proposito di poesia. Lei ha pubblicato tre libri di poesia (Rivoluzione
e controrivoluzione; 60 quaderni dal 1952 al 1963; Quaderni dal
1969 al 1985), in cui emergono, tra le altre cose, un accenno alla sua
battaglia contro la pena di morte statunitense e una ballata per la morte
dell'anarchico italiano Giuseppe Pinelli dal titolo Pinelli Baader manifesto:
«...il corpo di giuseppe pinelli cade / come cadono nel buco del tempo
tutti i corpi di tutti i prigionieri di tutte le prigioni del mondo / e tutto il mondo
è una prigione tenuta dallo stato / e dovunque c'è una prigione c'è anche
uno stato...». Ci può descrivere brevemente la sua poesia?
Le mie poesie sono il tentativo di registrare la dimensione epica
della mia vita nei termini dei cambiamenti che ho sperimentato, che
rappresentano il background e il grido del mio tempo. Le poesie registrano
una progressiva visione e comprensione della realtà, dei
suoi problemi, lacune e soluzioni. Le soluzioni assumono inevitabilmente
la forma di cambiamento rivoluzionario. Registrano la mia disperazione,
che credo sia la stessa dei miei contemporanei. Questa
disperazione apre la strada al progetto rivoluzionario, le poesie sono
un'invocazione che provoca visioni.
Cosa insegna - se insegna - la poesia agli attori?
Che uno deve recitare tutto con tal convinzione, che deve far sì
che la forza della verità, la forza dell'amore e la forza della vita
siano irresistibili per tutti gli altri attori con noi sulla scena, in maniera
tale da trascinarli nel rituale magico di girare la ruota e riportare
la terra al suo gioioso stato di cambiamento creativo. Ma sia
ben chiaro, ognuno differente da un altro, ognuno individuo, ma
tutti in relazione uno con l'altro, reciprocamente indipendenti. Insomma,
senza dell'altro non esistiamo.
- Come possiamo metterci in relazione l'uno con l'altro?
Nutrire tutti, arrestare tutte le guerre, aprire le porte di tutte le
prigioni, disintegrare la violenza, obliterare il razzismo, liberarci del
denaro, finirla col militarismo, porre fine ai sistemi autoritari, finirla
con questa storia del sistema di classe.
- Lei una volta ha scritto: «La struttura sociale è la prigione del mondo.
La nostra battaglia è penetrare dentro le possibilità dell'essere». Ha a che
fare con la sua idea anarchica sulle orme di Artaud?
Nulla è più naturale del cambiamento. L'anarchia non è nient'altro
che questo. L'anarchia deriva semplicemente dal riconoscere tale
fatto, esattamente come il corpo cambia da secondo a secondo, come
le stagioni, come l'età dell'uomo, come questo pianeta dalla preistoria
attraverso la preistoria marxiana, la storia fino a oggi, fino alla
successiva evoluzione. Dinosauri e uccelli arrivano e spariscono, e
noi? L'anarchico vuole creare le condizioni in modo che il processo,
il processo dell'universo, continui fino al massimo sviluppo effettivo
della vita e della gioia. Un principio dell'anarco-comunismo: se cambi
l'economia cambierà anche la mentalità, quando vivremo in comunità
noi tutti saremo diversi.
- Il suo teatro ha rotto con la convenzionalità, con il linguaggio classico
del teatro. Cosa intende per rottura di linguaggio?
La rottura del linguaggio equivale a una rottura di valori, dei
sistemi dì discernimento, della ragione malata. Rottura del linguaggio
significa invenzione di nuove forme di comunicazione. Rottura
del linguaggio significa rottura dei calcolatori elettronici. Rompi il
linguaggio delle forze in controllo e romperai la loro stanca logica,
romperai la loro struttura ermetica. Scuoti le cose, cambia, abbandonati
alle cose che non comprendiamo, ciò che crediamo di capire
non lo capiremo in nessun modo, la nostra logica è falsa, è rigida e
sistematica. Occorre aprire la finestra e respirare aria nuova, affrancare
il linguaggio (pensiero) dai limiti della ragione socratica,
che è ora l'arma potente della democrazia imperialista dominante.
Togliamo via alla classe dominante il linguaggio per sottoporlo all'immaginazione,
turbolenza della mente. Per Breton, questo, negli
anni '20, era la "Rivoluzione della Parola"; ma ora è giunto il momento
di non limitarla solo alla letteratura, come libera associazione,
ordine del futuro; come opposizione all'associazione
irreggimentata della struttura societaria che domina il corpo e lo
spirito del nostro tempo.
- Gran parte di coloro che amano il teatro contemporaneo la conoscono
come il padre del "Living Theatre". Che cosa ha rappresentato per lei
il "Living Theatre", costituito con sua moglie Judith Malina?
Il teatro non era più per noi un fine, ma semplicemente un mezzo
per raggiungere determinati strati sociali, per conoscere la loro
problematica e stabilire un contatto con essi. Abbiamo cominciato così a
liberarci della schiavitù del testo scegliendo semplicemente dei temi
da illustrare, sfruttando le esperienze della nostra vita di ogni giorno
a contatto con una popolazione appartenente ai più infimi strati sociali,
che avevamo eletto a nostra sola interlocutrice e collaboratrice.
- Come nasce il "Living Theatre"?
Quando andammo da Robert Edmond Jones nel 1947 per parlargli
del nostro teatro, lui rimase molto entusiasta e ci chiese di tornare
nuovamente. Lo facemmo; io gli porsi i miei progetti scenici e parlammo
dei lavori che ci proponevamo di fare. Parlammo molto; ci
sembrava molto triste e gli chiedemmo perché. All'inizio, disse, pensavo
che aveste la risposta, che foste veramente sul punto di creare il
nuovo teatro, ma vedo che state solo facendo domande. Quanti soldi
avete? 6000 dollari, risposi. Peccato, rispose; vorrei che non aveste
proprio denaro, assolutamente niente, allora forse potreste creare il
nuovo teatro, costruire il vostro teatro con spaghi e cuscini di poltrone,
farlo in studi e soggiorni. Dimenticate i grandi teatri, aggiunse, e
l'ingresso a pagamento; là non succede niente, niente altro che
istupidimento, non verrà mai fuori niente di lì. Se volete prendetevi
questa stanza, disse, offrendoci il suo studio, se volete iniziare di qui
potete averla.
- Immagino che ci rimaneste male, forse la vostra idea di teatro alternativo
non era ancora pronta per essere accolta?
Non posso negare che rimanemmo delusi dalla proposta e rifiutammo.
Il nostro teatro, d'altronde, non era basato poi tanto sulla
volontà di scardinare i canoni del teatro classico, bensì di avere un
successo simile agli spettacoli che si tenevano a Broadway.
- Poi l'avete costituito il vostro teatro?
Il 26 aprile 1948, con atto notarile, ufficializzammo la costituzione
della nostra compagnia, ma ci mancava una sede dove rappresentare
i nostri spettacoli. Non eravamo interessati al teatro di quel
tempo, ritratto di persone subumane e tutto patriottismo. Il patriottismo
è il passatempo degli sciocchi quando non è quella passione per
il paese e il suo popolo che è l'ardore dell'amante, sebbene la semplice
immagine del teatro contemporaneo fosse già sufficiente al precipitare
di una rivoluzione. Iniziammo con rabbia. Tutto il teatro sano
di quel tempo era al di sotto della dignità di donne incinte e uomini
validi. All'altezza dello spettatore c'era solo qualcosa di folle, gesti
cavati fuori dalle viscere degli attori, inconsci come i movimenti di un
bruco, appendici palpitanti come spilli che entrano nel torace, mani
di annegati, messaggi anonimi ricevuti nel sonno.
- Dovevate avere una grande stima di voi stessi e del teatro che sognavate
per non arrendervi alle evidenze.
Andavamo a teatro continuamente, Judith e io. Tutto ci interessava
e ci infuriava. Due tre quattro volte la settimana. In questo modo,
nel 1946, Judith già sapeva di non voler lavorare in quel teatro. Io
continuavo a dipingere in quel periodo, mi occorsero sei mesi per
arrivarci; decidemmo di costituire un teatro che avrebbe fatto cose
diverse. Credevamo anche che ci fosse una specie di ritardo
sociologico nello sviluppo del teatro. Cioè, leggevamo Joyce e Pound,
Breton, Lorca, Proust, Patchen, Goodman, Cummings, Stein, Rilke,
Cocteau, la pittura di Pollock e De Kooning che implicava una vitalità
sconosciuta al teatro, un livello di consapevolezza e inconsapevolezza
raro a trovarsi sulla scena.
- Nel frattempo che il vostro sogno si realizzasse, come impegnavate
le vostre giornate?
Judith studiava con il regista teatrale tedesco Erwin Piscator, un
avanguardista del teatro. Egli sapeva che politica radicale e azione
sociale erano la strada. Si parlava di anarchia, beat generation,
marxismo, mitologia e metrica greca, sogni e Freud, discorsi giovanili;
si camminava nei boschi lungo Palisades [Boschi lungo la costa
del New Jersey, di fronte Manhattan]; si andava molto al mare, bellezza
da spiaggia. Probabilmente la nostra valutazione più profonda:
che gli anni '40 non furono l'apogeo del successo umano, ma disperata,
tutta la gloria che il mondo potrà mai contenere. Il problema
era di trovare, ordinare, ricostituire la materia, sentire, e essere. Un
teatro per tutto questo.
- Torniamo alla realizzazione del "Living Theatre". Come ci riusciste?
Quattro anni più tardi dall'incontro con Jones, incapaci di trovare
un teatro in cui lavorare, decidemmo di dare alcuni lavori nel
nostro soggiorno senza far pagare o spendere un centesimo. Funzionò.
Aveva ragione Jones. Ma non avevamo ancora capito completamente.
Per cui abbiamo avuto teatri con pubblicità commerciale, prezzo
d'ingresso e pagamento di tasse. Come se da questo potesse accadere
qualcosa, la glorie, forse. Cademmo dentro la trappola! Nel riconoscere
di esserci dentro abbiamo almeno iniziato a discutere le strategie
per uscirne.
- La linea guida del suo teatro?
Liberare il pensiero dai limiti della ragione socratica; togliere alla
classe dominante il linguaggio per sottoporlo all'immaginazione, turbolenza
della mente, agganciandoci al surrealismo di Breton, al dada
di Tzara, all'assurdo di Ionesco. Questa negli anni '20 - come ho già
detto - fu chiamata "Rivoluzione della Parola", ma ora non la limitiamo
solo alla letteratura. Libera associazione, come l'ordine del
futuro, come opposizione all'associazione irreggimentata della struttura
societaria che domina il corpo e lo spirito del nostro tempo. Il
percorso centrale, insomma, è il rapporto tra attore e spettatore. Stabilire
un rapporto amoroso con gli spettatori, non più fingere la vita
ma viverla.
- Per concludere. A quale spettacolo è più legato?
A "Frankenstein", presentato nel 1965 proprio in Italia, al
"Festival del Teatro" di Venezia, che rappresenta forse lo spettacolo
più compiuto e riuscito sul piano strettamente teatrale